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Perché ho scelto di fare la psicologa
C’è una domanda che, nel tempo, mi è stata posta da amici, colleghi, pazienti o persone incontrate per caso: “Perché hai scelto di fare la psicologa?”.
Rispondere non è semplice, perché le motivazioni non sono mai lineari. Sono fatte di vissuti, inclinazioni personali, esperienze che piano piano ti portano a riconoscere che accompagnare le persone nel loro mondo interno è qualcosa che ti chiama, ti somiglia.

Una scelta che nasce dal desiderio di ascoltare davvero
Fin da giovane, sono stata incuriosita dal comportamento delle persone: cosa c’è dietro una rabbia, un silenzio, un sorriso forzato, una scelta? E dietro il modo di essere, e di mostrarsi? Ricordo il colloquio per entrare all’università: una delle prime domande che mi posero fu proprio “perché hai scelto psicologia?”, e la mia risposta, innocente, è stata “perché voglio essere un aiuto per gli altri”.
Ho sempre creduto che ogni emozione, anche la più scomoda, avesse qualcosa da raccontare.
E che dietro ogni malessere ci fosse una storia che valeva la pena di essere ascoltata senza giudizio, con rispetto. Ma non necessariamente solo il malessere, anche quelle piccole sfaccettature che incuriosiscono, le particolarità, sono sempre stata una bimba piena di “perché?”. Ero proprio una di quelle bambine, a tratti fastidiose, che chiedono sempre il perché di tutto.
Il valore dell’incontro
Scegliere di fare la psicologa, per me, ha significato scegliere il lavoro dell’incontro: uno spazio in cui l’altro può finalmente fermarsi, essere visto, ascoltato, riconosciuto.
Ogni persona che si affida alla terapia porta con sé il suo mondo: paure, desideri, ferite, forza. Ogni incontro è unico e irripetibile. Ed è proprio questo che rende il mio lavoro così profondamente umano.
Una lettura fenomenologica dell’incontro terapeutico
La mia formazione mi ha insegnato a non ridurre mai la persona al suo sintomo, al suo comportamento o alla sua storia clinica.
La prospettiva fenomenologica mi invita, ogni giorno, a stare con l’altro senza interpretare, con la volontà di comprendere come quella persona vive ciò che vive, dall’interno.
Significa sospendere il giudizio, rimanere presenti all’esperienza dell’altro, accoglierla nella sua forma grezza, ancora non detta, ancora in cerca di parole.
In questa ottica, il mio ruolo non è quello di “spiegare” o “aggiustare”, ma di stare accanto, di guardare insieme ciò che emerge, nel rispetto dei tempi e delle possibilità di chi ho di fronte.
Uno spazio in cui si può essere autentici
Nel mio lavoro di psicologa a Mirano e Noale, accolgo ogni persona con l’intenzione di offrire uno spazio sicuro e autentico, in cui non si deve dimostrare nulla, ma si può semplicemente “essere”.
Scegliere di fare la psicologa, per me, significa esserci: nei momenti di confusione, di crisi, ma anche nei piccoli cambiamenti, nei passi avanti, nella scoperta di nuove risorse interiori.
Conclusione
Fare la psicologa non è solo una professione: è un modo di stare nel mondo, di credere nella possibilità di trasformazione, anche quando tutto sembra fermo o doloroso.
Ed è una scelta che rinnovo ogni giorno, ogni volta che una persona entra nel mio studio e sceglie, con coraggio, di iniziare a prendersi cura di sé.
Con uno sguardo fenomenologico, ogni incontro è un’occasione per scoprire insieme, nel qui e ora, il senso di ciò che accade.
